Il decimo simposio “ATP1A3 in Disease” si è aperto con una sessione introduttiva volta a fare il punto sulle scoperte degli ultimi 10 anni.
Nel 2012 infatti, dopo un’accurata selezione di pazienti con un quadro clinico ben caratterizzato da sottoporre ad indagini genomiche, è stato individuato il gene ATP1A3 come principale responsabile dell’emiplegia alternante dell’infanzia. Già ai tempi era noto come il gene fosse responsabile anche di RDP (rapid-onset dystonia-parkinsonism); negli anni diverse altre condizioni si sono aggiunte all’elenco tanto da portare alla definizione di una nuova categoria: le ATP1A3-patie. Molte di queste condizioni condividono dei tratti comuni come la presenza di eventi accessuali, spesso causati da fattori esterni e di disturbi del movimento.
ATP1A3 codifica per la subunità α dell’isoforma neuronale della pompa sodio potassio. Tutti i pazienti presentano varianti in eterozigosi; mentre in origine si pensava che il meccanismo patogenetico fosse l’aploinsufficienza (ovvero la carenza di un’adeguata quantità di trascritti del gene), attualmente si è più propensi a pensare che sia in realtà un fenomeno di dominanza negativa, in cui la mutazione del gene provoca un danno che porta allo sviluppo del fenotipo clinico. La scoperta del gene responsabile dell’emiplegia alternante ha portato anche allo sviluppo e allo studio di diversi modelli animali, principalmente murini, su cui il prof. Clapcote ha fatto un interessante excursus.
Le nuove conoscenze acquisite hanno portato un gruppo di esperti a proporre una nuova serie di criteri clinici e genetici per la diagnosi dell’emiplegia alternante dell’infanzia, discussi e valutati durante la sessione del pomeriggio.
La prima giornata del congresso è stata inoltre caratterizzata da due interessanti testimonianze: quella di Sumaria Sonal, che ha descritto com’è la vita di una paziente con la CAPOS, e quella di Johanna Brown, che ha riportato i risultati di un sondaggio rivolto alle famiglie dei pazienti con AHC per intercettarne le necessità, i bisogni specifici e le aspettative.
La giornata si è conclusa con un dibattito circa il nome della condizione che vedeva contrapposti chi ne considerava il valore storico e la diffusione e chi lo reputava ormai superato, sia per la ben più vasta caratterizzazione della condizione che per l’età non più esclusivamente pediatrica dei pazienti. Alla fine la maggior parte dei presenti, tra ricercatori e familiari, si è dimostrata a favore di un adeguamento del nome, mantenendo però l’acronimo AHC.
Il filo conduttore della seconda giornata è stato la definizione di storia naturale dell’AHC, utile a valutare l’efficacia dei trattamenti sperimentali che sono o saranno disponibili in futuro.
Riguardo ai futuri trial clinici, il professor Auvin ha tenuto un’interessante presentazione che ha posto tutti noi ricercatori di fronte alle problematiche che ci troveremo a fronteggiare quando sarà il momento di valutare l’efficacia dei nuovi approcci terapeutici nei pazienti: la definizione degli endpoint, la numerosità del campione, la “grandezza” dell’effetto che si vuole valutare e, appunto, la definizione condivisa di “storia naturale”.
Nella selezione di soggetti candidati a partecipare ai trial clinici e nella randomizzazione in gruppi quanto più possibile omogenei, la correlazione tra le singole varianti e il fenotipo è fondamentale: è stato lanciato lo studio VARIA-ATP1A3, che si propone di creare un registro di pazienti per caratterizzare dal punto di vista fenotipico le varianti meno note e definire lo spettro di variabilità delle patologie correlate ad ATP1A3.
Nella mattinata sono stati inoltre presentati i primi dati circa il follow-up di pazienti adulti con la condizione ed è stato evidenziato come la transizione tra la presa in carico durante l’adolescenza e l’età adulta sia ancora non codificata ed affidata alle iniziative dei singoli centri, mentre occorrerebbero delle linee guida internazionali.
Si è discusso inoltre di diverse problematiche nella gestione dei pazienti, partendo dal ritardo diagnostico, dovuto in parte alla rarità della condizione ed in parte alla difficoltà nella descrizione dei fenomeni accessuali: ne è emersa un’indicazione per le famiglie a filmare i fenomeni emiplegici e la necessità di una formazione specifica per il personale sanitario. Si è inoltre parlato della gestione della distonia nei pazienti e dell’utilizzo o meno della flunarizina: a tale proposito a fronte di un non ben chiarito effetto sullo sviluppo motorio ed intellettivo dei pazienti e considerata una riferita efficacia sulla frequenza degli attacchi emiplegici, il prof. Sasaki ha concluso che il suo utilizzo sia da suggerirsi tranne che nei pazienti con la variante E815K, in cui la sospensione del trattamento ha causato un deterioramento cognitivo.
Sono stati riportati i risultati di uno studio retrospettivo sul sonno dei pazienti, che ha confermato la presenza di disturbi del sonno anche in età adulta e della loro possibile correlazione con gli episodi emiplegici.
La sessione pomeridiana è stata incentrata sulle attività di laboratorio: lo studio dell’effetto delle varianti sulla proteina ATP1A3, la funzionalità della pompa sodio-potassio nell’eccitazione neuronale, l’effetto degli steroidi cardiotonici sull’attività della pompa, il contributo dei neuroni del midollo spinale alla condizione. In questa sessione il prof. Tiziano ha presentato i dati del progetto “Treat-AHC”, finanziato e fortemente supportato da A.I.S.EA., inclusi alcuni dati mai presentati: gli ultimi esperimenti di trattamento con 3 delle molecole candidate su un modello murino con D801N effettuati nel laboratorio del prof. Mikati e i dati preliminari dell’analisi del trascrittoma effettuato su cellule sane e mutate, con e senza il trattamento con le molecole candidate.
L’ultima sessione si è incentrata sulla gestione multidisciplinare dei pazienti, nella sua complessità: sono stati valutati l’aspetto cardiologico, gastroenterologico, respiratorio, psichiatrico oltre alla fisioterapia, logopedia e medicina del dolore.
Durante la terza giornata è emersa l’importanza di fare “rete” tra famiglie, clinici e ricercatori, per migliorare l’esperienza della diagnosi, per creare registri di pazienti che raccolgano dati clinici, di terapia e di follow-up e per trasmettere e condividere i risultati delle ricerche.
La dott.ssa Elisa De Grandis ha esposto i primi dati sulla scala funzionale, sviluppata in collaborazione con la dott.ssa Eleni Panagiotakaki e la dott.ssa Carmen Fons per valutare i pazienti con AHC.
Sono stati inoltre riportati gli ultimi aggiornamenti circa i possibili approcci terapeutici all’AHC. Il dr. O’Callaghann ha descritto i risultati di alcuni studi con cannabinoidi su pazienti con forme di epilessia refrattaria ed ha proposto di realizzare un trial analogo con pazienti affetti da emiplegia alternante.
La prof. Luz ha parlato dei risultati preliminari di un approccio di terapia genica con vettori adenovirali in modelli murini di AHC: il trattamento aumenta la sopravvivenza dei topi e provoca una minore reattività a stimoli esterni; tuttavia i risultati ottenuti non sono omogenei per tutta la popolazione in esame e necessitano pertanto di ulteriori esperimenti di conferma.
È stato poi descritto l’approccio terapeutico mediante l’utilizzo della tecnologia CRISPR-Cas9, che permette di editare il DNA di interesse in maniera altamente specifica: questo approccio, qualora si rivelasse efficace, sarebbe in grado di correggere in maniera specifica le mutazioni dei singoli pazienti. Infine è stato descritto il possibile trattamento con oligonucleotidi antisenso: il razionale di questo approccio è il fatto che le mutazioni di ATP1A3 hanno un effetto dominante negativo e dunque abbattere la trascrizione del gene mutato con un oligonucleotide antisenso porterebbe un giovamento al paziente. Entrambi questi approcci sono mutazione-specifici, con il vantaggio di essere applicabili a tutti i pazienti con una mutazione descritta e lo svantaggio del costo elevato di una terapia personalizzata. Un aspetto importante da valutare in entrambi è la loro specificità, ovvero la capacità di agire selettivamente sull’allele mutato lasciando indenne quello wild-type, che di fatto ha una sequenza genomica quasi identica.
Testo a cura di D. Tiziano, E. Abiusi, A. Novelli
(Università Cattolica di Roma)